La Reggia di Caserta si è rifatta il look. Ma i parrucchieri erano chiusi

La Reggia di Caserta si è rifatta il look. Ma i parrucchieri erano chiusi

La scelta dei progettisti, come confermato dalla direttrice Maffei, dopo una ricerca di mercato è caduta su una realtà lombarda, nello specifico di Mantova, che vanta ben 25 anni di esperienza. Siamo certi che la terra dei Borbone potesse ampiamente offrire quella competenza ricercata dal committente, ma come spesso accade in questi casi, il rebrand è sí una scelta di riposizionamento attraverso una nuova immagine, ma anche far parlare dell’autore è parte della strategia di marketing.

Al netto dei tecnicismi, dei quali parleremo più tardi in questo articolo, la domanda è una su tutte: può realmente un designer avere contezza delle complesse necessità comunicative di un’istituzione così importante pur non vivendo il territorio?

La risposta è ovviamente complessa, in genere la progettazione grafica vede una fase preliminare di studio e di ricerca durante la quale si considerano tutti gli aspetti estetici, tecnici e di riproduzione del logo ma non prima di aver individuato un concept, qualcosa che possa raccontare una storia attraverso un artefatto. Per quanto impattante graficamente possa essere, servirà sempre un’idea da imprimere nella memoria comune e che sia associabile direttamente all’elaborato. Per farlo bisogna conoscere la storia, la vita, i miracoli di quel prodotto o servizio o in questo caso complesso architettonico. Quindi progettare l’identità della Reggia di Caserta è possibile pur non essendo autoctoni? Certo, per intenderci è come raccontare un film che non abbiamo visto la cui trama ci è stata raccontata a nostra volta.

Mettiamo però da parte per un attimo il Pino Aprile in ognuno di noi, scevri da ogni campanilismo analizziamo l’aspetto tecnico di questo marchio. Spieghiamo perché, secondo noi, persino le parole scelte per descrivere il progetto dimostrano pochezza e inadeguatezza, non tanto per chi lo ha progettato ma per chi lo ha scelto ed approvato.

Il marchio è composto da un lettering, un monogramma (RC) e all’occorrenza una corona stilizzata. Il risultato ad una prima occhiata sembra avere il giusto impatto visivo ma basta un occhio attento e due secondi in più per capire che non è altro che una crasi frankensteiniana di lettere mai pulite da punti di ancoraggio in eccesso. La tipografia viene trattata eliminando alcuni elementi per alleggerirne l’impatto visivo, ma ne consegue una poca omogeneità del rapporto pieni-vuoti. La scelta cromatica caduta su un blu e un giallo oro è, probabilmente, l’unico elemento che può dare unicità e riconoscibilità al progetto. La scelta anonima di fare emergere le iniziali e creare il monogramma potrebbe essere applicabile a diversi altri marchi, da Reggio Calabria a Radio Club, da Resort Caiazzo a Rocco Casalino. Viene dunque a mancare quella caratteristica e quel segno distintivi per rendere unico il progetto. Relegando quindi l’elaborato a mero esercizio stilistico mal riuscito.

In questo re-brand, ovviamente necessario e costato 37 mila euro, sembra venire meno il concetto, qualcosa in cui riconoscersi ed immedesimarsi. Qualcosa che racconti il complesso vanvitelliano oggi, ma che ne faccia ricordare la storia.

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