Della pesca, del target e di altri demoni
Le polemiche che ha suscitato e sta suscitando lo spot Esselunga dovrebbero essere incentrate su altro e non sul pretendere che l’azienda dovesse realizzare lo spot come piace a noi, includendo al suo interno tutto e il contrario di tutto, per non far dispiacere nessuno. Si dovrebbe ragionare solo su alcune cose ben precise: lo spot offende qualche categoria? È omofobo? È dichiaratamente non inclusivo o appositamente esclude dalla narrazione una categoria di persone? Lo spot parla al target di Esselunga o hanno sbagliato obiettivo? Lo spot fa ricordare a chi lo vede il motivo per cui Esselunga esiste, si differenzia dagli altri brand della GDO e per questo motivo la debbano preferire? Lo spot è girato bene? Gli attori sono bravi? Fotografia, testi, musica, durata sono funzionali al progetto? (Se proprio vogliamo entrare negli aspetti tecnici, ma in questo caso bisogna avere qualche competenza in più rispetto all’ “esperienza della strada”).
Soprattutto la politica, in un momento complicato per l’economia come quello attuale, dovrebbe spendere meglio il proprio tempo invece di discutere per giorni su uno spot pubblicitario di un’azienda privata. Avessero speso lo stesso tempo e polemizzato allo stesso modo per la campagna Open to Meraviglia, forse oggi avremmo un’immagine migliore del Belpaese in giro per il mondo, visto che stiamo parlando di soldi pubblici.
È chiaro che ogni azienda ha (o almeno dovrebbe avere) anche una responsabilità sociale, ma non mi sembra che il sopracitato spot violi o neghi i diritti di qualcuno.
E invece in queste ore stiamo vivendo una sorta di nuova Inquisizione, al contrario però.
Un’inquisizione che interpreta a modo suo il principio di non discriminazione, pretendendo che non si possa dire e fare più nulla. In nome della tolleranza siamo diventati intolleranti. Un attacco alla libertà da parte di chi la libertà la invoca.
Certo non si pretende di tornare al medioevo o, tenendoci in un passato meno remoto, agli anni ’50 del secolo scorso, però forse la cosa andrebbe gestita con un minimo di giudizio, ammettendo e favorendo la tolleranza verso una pluralità di pensiero e di libertà di essere e di vivere, e contestualmente rispettando una forma antica di vita insieme che è preziosa allo stesso modo di altre.
Faccio mie le parole di Massimo Recalcati in un’intervista a Repubblica: “Contrariamente a una lettura superficiale, lo spot non celebra la famiglia tradizionale anti-divorzista, ma evidenzia la maturità emotiva dei genitori nel gestire la separazione, mantenendo integro l’affetto nei confronti della figlia. È un monito sulla necessità di preservare la stabilità emotiva dei figli, differenziando la libertà personale dalla responsabilità genitoriale.”
Dopo la parola sacrificio, ormai impronunciabile in qualsiasi azienda e nella società senza essere additati come sfruttatori o malati di lavoro e come quelli che non sanno godersi la vita perché si vive una volta sola, anche la parola famiglia viene guardata di sbieco, soprattutto se accompagnata da certi aggettivi.
A mio avviso lo spot è buono, anche se non mi entusiasma.
È sicuramente più lungo rispetto ai canoni classici della pubblicità televisiva, e questa cosa è un punto a favore per due motivi: se vuoi toccare emotivamente qualche corda il racconto deve essere ben strutturato e persistente (se vogliamo utilizzare una terminologia da degustazione); la lunghezza deriva anche dalla lentezza del girato, cosa che ci riporta un po’ alla normalità, a rallentare, a focalizzare, a respirare e a riflettere, in un mondo che ormai viaggia alla velocità della luce e noi insieme ad esso.
Da questo punto di vista, quindi, ha centrato il segno non perché si debba perseguire il concetto sbagliatissimo di “basta che se ne parli significa che ha funzionato”, ma semplicemente perché ha emotivamente toccato corde profonde e suscitato emozioni in chiunque lo abbia visto. Legato a ciò però, e questo è il punto per cui non mi entusiasma, non mi è chiaro il messaggio dell’azienda, la sua differenziazione rispetto alla concorrenza. Il claim “Non c’è una spesa che non sia importante” può valere per Esselunga come per qualsiasi altra catena, e io che non sono suo cliente non trovo nessun motivo valido per non andare più in altre catene. Non mi lascia nulla se non un insieme di emozioni che oscurano il motivo principale per il quale un’azienda dovrebbe mettere in piedi una campagna e uno spot pubblicitario: rafforzare il posizionamento nella mente del cliente, e comunicare al potenziale cliente il motivo per il quale dovrebbe acquistare da lui e non dalla concorrenza.